Dietro lo scaffale Ogni anno ha i suoi (buoni) propositi. Sulla prima pagina del mio primo taccuino del 2012, scorrendo veloce, leggo: l'Atlantico dall'altra parte dell'Atlantico, ancora illudersi di poter correre una maratona, niente più sottotitoli, il derby di Glasgow con la maglietta di Larsson, una foto con Ismael Urzaiz, una notte – sveglio - su un peschereccio, un suo sorriso che immagino irripetibile...leggere l'intera bibliografia di Jack London. Ora non per Martin Eden e per Il popolo degli abissi già da tempo stellette sul mio scaffale, ma la (singola) sfida sembra partire in discesa. Una discesa insidiosa: in regalo da mia sorella, l'edizione della Newton Compton, apparentemente omnia a farsi ingannare dallo spessore. E così dopo Il richiamo della foresta, Il lupo dei mari e Zanna Bianca, il rigoroso ordine progressivo delle pagine mi riserva Il Tallone di Ferro.
Perché leggerlo London doveva avere mani grosse. Le mani di chi ha dovuto lavorare duro per (soprav)vivere. Non importa se in mare a inseguire foche o nel gelo del Klondike a cercare oro. Almeno fino a che il velluto delle pagine di successo scritte non le hanno guantate, quelle mani si sono sporcate e si sono ingrossate. E le mani, anche a distanza di anni, continuano a ricordarti chi sei e da dove arrivi. London ne Il Tallone di Ferro così si schiera solidale dalla parte di chi i calli li ha da sempre a mappare le proprie tremende fatiche. Disumane, sarebbe meglio dire. London, attraverso l'espediente narrativo del ritrovamento di un manoscritto a firma di una figlia della borghesia convertita alla causa della rivoluzione socialista, non fa altro che porre il proprio sguardo coinvolgente e documentaristico su quel 'popolo degli abissi', quel (sotto)proletariato, realmente sfruttato e violentato solo per arricchire i pochi. Oligarchia e Plutocrazia, non a caso, diventano poi nella finzione il volto bifronte dell'indefinito e dittatoriale antagonista che si espande e che bisogna rovesciare. La trama rimane in superficie, perché a interessar(ti) sono solo i reali e spietati ingranaggi di quel sistema di produzione industriale, sempre più calcolato e lucido, capace di dominare e calpestare brutalmente fisico e dignità di chi ha dimenticato se le proprie mani le usa per lavorare o per sopravvivere solo un giorno in più. E di chi imparerà a usare quelle mani, in un futuro lontano, per creare un nuovo e più giusto ordine, dopo che il sangue degli ultimi avrà scavato e ribollito a sufficienza nei moderni canyon di palazzi e strade.
Perché non leggerlo Quel fuoco capace di ardere e scaldare in tante altre pagine londoniane, qui, non scoppietta. Non riesce veramente a tenere compagnia, ad appassionare, a coinvolgere. I personaggi, non solo i protagonisti Avis ed Ernest, si diluiscono troppo nel didascalico racconto di un racconto. E i momenti di 'didattica', declinati anche con le frequenti note, sono artifici che hanno sì il merito di delineare i contorni della storia, calibrandone l'angolo di osservazione, ma asciugano l'empatia, rendendola troppo stanca e accidentale.
La frase «Uomini, donne e bambini, vestiti di stracci e cenci, oscure intelligenze feroci i cui lineamenti avevano preso le sembianze divine e avevano impresse quelle diaboliche, scimmie e tigri, bestie da soma anemiche, tisiche e pelose, volti esangui da cui la società vampira aveva succhiato la linfa vitale, forme gonfie ingrossate dall'obesità e dalla corruzione fisica, megere avvizzite e teste di morto barbute come patriarchi, gioventù putrefatta e putrefatta vecchiaia, volti di demoni, mostri deformi, ricurvi, sfigurati dalla devastazione della malattia e dagli errori della denutrizione cronica, rifiuto e feccia della vita, un'orda furiosa urlante, stridente, demoniaca».
Déjà lu Il popolo degli abissi, Jack London; 1984, George Orwell; La macchina del tempo, Herbert George Weels; La giungla, Upton Sinclair; Il mondo nuovo, Aldous Huxley.